Lo Specchio Incerto

Tra immagine e parola

Diane Arbus


L’arte di Diane Arbus

copertina del libro “Untitled”
copertina di “Untitled”

Concentrata nell’arco di soli undici anni, dalla prima pubblicazione su Esquire nel 1960 fino alla data della sua morte avvenuta nel ‘71, la parabola artistica di Diane Arbus si dice abbia avuto le stigmate del “proibito”, nonché del male, che l’avrebbe infine portata al suicidio. Voler tuttavia giustificare un’ampia produzione d’immagini, legate a personaggi e situazioni problematiche per il sentire comune, come quella di Arbus, alla depressione che per molta parte della sua vita l’ha afflitta, così come voler cogliere in essa solo l’aspetto, pur sostanziale, della ricorrenza di certi soggetti è più che riduttivo, poiché l’opera di quest’artista, col suo allontanarsi da ogni schema precostituito, ha rappresentato un momento di profondo cambiamento tanto nei codici linguistici della fotografia, quanto nella percezione comune della realtà.

Diane Arbus non è stata la prima ad indagare il proibito: suoi illustri predecessori riguardo a scabrosità d’argomenti e crudezza d’immagini erano stati Brassaï, Weegee e Hine (un’immagine, in particolare, di quest’ultimo, risalente al 1924, ricorderebbe puntualmente Arbus, se i personaggi non fossero ritratti di profilo). La sua ricerca di un esasperato realismo può trovare punti di contatto con le fotografie scattate da Walker Evans per le vie di Chicago, o (specialmente per quanto riguarda il suo primo periodo) con le incisive “istantanee” dai toni espressionistici di Frank e Faurer.
Addestrata, grazie al lungo tirocinio di fotografa di moda accanto al marito, al rigore formale ed alla perfezione tecnica, Diane Arbus è ben lieta di rinunciarvi quando comincia la sua ricerca personale alla fine degli anni ‘50, e reagisce a questa prassi, che sente come una sistematica falsificazione cosmetica del reale, andando a “scoprire”, come le aveva consigliato la sua insegnante Lisette Model, ciò che non ha mai fotografato e di cui ha paura.
Così facendo, s’inserirà in una ben precisa tendenza del periodo a reagire contro le rassicuranti e noiose convenzioni borghesi: per primi gli esponenti della beat generation rifiutano i modelli di vita precostituiti; poi Andy Wahrol e la sua Factory, che esasperano i meccanismi della pubblicità, per sovvertire l’immagine accettata della nuova società dei consumi dall’interno e con le sue stesse armi. Arbus (che ha pure occasione di frequentare i pop artist), sceglie, però, con l’evidenza fotografica di orrori (dai quali il privilegio sociale l’ha protetta) di schierarsi più scopertamente ed attivamente contro ogni moralismo. Ciò le varrà un costante disprezzo da parte dei benpensanti, che sputeranno letteralmente sulle sue opere esposte per la prima volta nel ‘65 al Museum of Modern Art di New York; ma anche un continuo appoggio ed incoraggiamento da parte dei suoi amici fotografi ed intellettuali.
Walker Evans, suo grande estimatore, vedrà in lei una specie di Diana “cacciatrice d’immagini”, e ne scriverà: “La sua originalità è nel suo occhio, spesso rivolto al grottesco e all’audace, un occhio coltivato… per mostrarti la paura perfino in una manciata di polvere”.

Fotografa colta e raffinata, procede durante gli anni verso una semplificazione formale, attraversando un primo periodo caratterizzato da immagini sgranate e fortemente contrastate a causa di esposizioni approssimative. I suoi temi sono allora quelli, che la renderanno celebre, del “submondo” dei freaks.
Quelle “meraviglie” che l’avevano impressionata alla visione dell’omonimo film, girato nel 1932, da Tod Browning, scopre di poter incontrare quotidianamente a Coney Island, benché in quel periodo i freakshow siano proibiti. E’ lì, infatti, che si reca per conoscere le sventurate vittime di congenite deformità e gli individui eccentrici, che ritrarrà di preferenza nelle loro abitazioni e camere da letto, ad ulteriore testimonianza, qualora le fotografie potessero lasciar spazio al minimo dubbio, del grado d’intimità che riesce ad instaurare con i propri soggetti.
L’uso del “medio formato”, dal 1962 in poi, rivoluziona totalmente il suo modo di fotografare, soddisfacendo le sue nuove esigenze espressive: una chiarezza dell’immagine ed una definizione a prova di ingrandimento, ma ancor di più uno spazio quadrato, simmetrico, che avrebbe dato massima importanza al soggetto, posto frontalmente al centro della fotografia.
Come l’amico Richard Avedon, Diane Arbus ammira e studia, l’opera di August Sander, con le sue composizioni classiche nelle quali le persone ritratte si porgevano guardando allo spettatore, in piedi al centro di un sobrio sfondo. Memore dell’insegnamento di Lisette Model, per la quale la fotografia doveva essere uno strumento d’investigazione, Arbus non cerca però, come Sander, una classificazione “scientifica” (e quindi freddamente oggettiva) del genere umano, ma piuttosto uno scambio d’emozioni fra fotografo e fotografato.
Nelle sue opere troviamo sempre il rapporto diretto di uno sguardo rivelatore, che probabilmente riesce ad ottenere – oltre che con la sua, da molti testimoniata, innata capacità di mettere la gente a proprio agio – anche grazie alla scarsa carica aggressiva del tipo di attrezzatura fotografica di cui fa uso: le sue macchine 6×6, Rolleiflex o Mamiya dal mirino a pozzetto, non incombono psicologicamente, e la fotografa, a capo chino, non mette in soggezione, scrutandolo direttamente, chi posa. Queste macchine sono un limite psicologico posto a tutela reciproca.
Nonostante si voglia continuare a credere, nella migliore tradizione romantica, che Arbus non potrà salvarsi da una partecipazione emotiva, che la consumerà nell’anima, sta di fatto che nel suo lavoro colpisce proprio l’evidente esistenza di “un’empatia non sentimentale”: una forma di reciproca accettazione, in virtù della quale la fotografa non mostra compassione per i fotografati, che non la chiedono, perché non esprimono disagio o sofferenza per il proprio esser “strani”, quasi lo apparissero solo ai nostri occhi.

Il suo stile illusoriamente semplice e classico conferisce un’incongruente solennità agli individui particolari che per lei posano guardando al suo obiettivo senza inibizioni, siano essi ermafroditi, nudisti, gemelli, strane coppie borghesi, insoliti bambini o giovani manifestanti pro o contro la guerra del Vietnam. Un’importanza accentuata successivamente dal bordo nero che contornerà le sue immagini più note, sempre stampate “full frame”.
In esse, una particolare qualità di “misterioso realismo”, un levigato e quasi magrittiano surrealismo, è ottenuta grazie all’uso del flash di schiarita (un’innovazione assoluta per quel tempo, che avrà poi fin troppi imitatori), col quale stacca i soggetti dal fondo per portarli su un altro piano, talora anche a livello concettuale: in un’immagine come “Young Brooklyn Family Going for a Sunday Outing” del 1966, tal effetto espressivo balza all’occhio con maggior evidenza, poiché appare chiaro come differenze d’abito e d’atteggiamento siano esaltate tramite la luce del flash, e la moglie col piccolo in braccio colpita da una luce più forte ed irreale risulti “distante” dal marito che tiene il figlio per mano.
L’opera di Diane Arbus è, come sempre accade per gli artisti che sono più realmente innovativi, frutto di un ben determinato momento storico e di un certo tipo di società, Susan Sontag, tuttavia, nel suo libro “Sulla fotografia”, dedicandole alcune pagine dense di riflessioni illuminanti, tenta anche d’ipotizzare motivazioni più strettamente personali per spiegare l’aperta “rivolta rabbiosamente moralistica” contro il mondo del successo da parte di Arbus: forse una forma di “analgesia emotiva o sensoriale” l’avrebbe portata, piuttosto che non provare nulla, all’insistente ricerca della sofferenza attraverso soggetti carichi d’un vissuto drammatico; forse, al contrario, potrebbe aver tentato, sentendo troppo, di abituarsi a quegli orrori, il cui “malefico fascino” trovava irresistibile, ritrovandosi in ciò perfettamente in linea con gran parte dell’arte moderna, la quale ha continuato ad abbassare progressivamente “la soglia del terribile”, modificando la morale e denunciando l’arbitrarietà dei tabù, proprio come la fotografia di Arbus ha fatto.

Biografia

Diane Nemerov nasce il 14 marzo 1923 da una ricca famiglia ebrea di origine polacca, proprietaria della celebre catena di negozi di pellicce, chiamata “Russek’s”, dal nome del fondatore, nonno materno di Diane. Seconda di tre figli – il maggiore dei quali, Howard, diventerà uno dei più apprezzati poeti contemporanei americani, la minore Renée una nota scultrice – Diane vive, fra agi e attente bambinaie, un’infanzia iperprotetta, che forse sarà per lei l’imprinting d’un senso di insicurezza e di “straniamento dalla realtà” ricorrente nella sua vita.

Frequenta la Culture Ethical School, poi fino alla dodicesima classe la Fieldstone School, scuole il cui metodo pedagogico, improntato ad una filosofia umanistica religiosa, dava un ruolo preponderante al “nutrimento spirituale” della creatività. Il suo talento artistico ha quindi modo di manifestarsi precocemente, incoraggiato dal padre il quale la manda ancora dodicenne a lezione di disegno da un’illustratrice di “Russek’s”, tale Dorothy Thompson, che era stata allieva di George Grosz. La grottesca denuncia dei difetti umani di questo artista, agli acquerelli del quale la sua insegnante la inizia, troverà terreno fertile nella fervida immaginazione della ragazza, e i suoi soggetti pittorici sono ricordati come insoliti e provocatori.

All’età di quattordici anni incontra Allan Arbus, che sposerà appena compiuti i diciotto, nonostante l’opposizione della famiglia, rispetto al livello sociale della quale è ritenuto inadeguato. Avranno due figlie: Doon ed Amy.

Da lui impara il mestiere di fotografa, lavorando insieme a lungo nel campo della moda per riviste come VogueHarper’s Bazaar e Glamour. Col suo cognome, che manterrà anche dopo la separazione, Diane diventa un controverso mito della fotografia.
La vita comune dei coniugi Arbus è segnata da importanti incontri, essendo essi partecipi del vivace clima artistico newyorkese, soprattutto negli anni 50 allorché il Greenwich Village diviene un punto di riferimento per la cultura beatnik. In quel periodo Diane Arbus incontra, oltre ad illustri personaggi come Robert Frank e Louis Faurer (per citare, fra i tanti, solo coloro che l’avrebbero più direttamente ispirata), anche un giovane fotografo, Stanley Kubrick, che più tardi da regista in “Shining” renderà a Diane l’omaggio una celebre “citazione”, nell’allucinatoria apparizione di due minacciose gemelline.

Nel 1957 consuma il suo divorzio artistico dal marito (il matrimonio stesso è ormai in crisi), lasciando lo studio Arbus, nel quale il suo ruolo era stato di subordinazione creativa, per dedicarsi ad una ricerca più personale.
Già una decina d’anni prima aveva tentato di staccarsi dalla moda, attratta com’era da immagini più reali ed immediate, studiando brevemente con Berenice Abbott. S’iscrive ora ad un seminario di Alexey Brodovitch, il quale già art director di Harper’s Bazaar, propugnava l’importanza della spettacolarità nella fotografia; sentendolo però estraneo alla propria sensibilità ben presto comincia a frequentare alla New School le lezioni di Lisette Model, verso le cui immagini notturne e realistici ritratti si sente fortemente attratta. Costei eserciterà su Arbus un’influenza determinante, non facendone una propria emula, ma incoraggiandola a cercare i propri soggetti ed il proprio stile.
Diane Arbus si dedica allora instancabile ad una sua ricerca, muovendosi attraverso luoghi (fisici e mentali), che da sempre erano per lei stati oggetto di divieti, mutuati dalla rigida educazione ricevuta. Esplora i sobborghi poveri, gli spettacoli di quart’ordine spesso legati al travestitismo, scopre povertà e miserie morali, ma trova soprattutto il centro del proprio interesse nell’ “orrorifica” attrazione che sente verso i freaks. Affascinata da questo mondo oscuro fatto di “meraviglie della natura”, in quel periodo frequenta assiduamente il Museo di mostri Hubert, e i suoi spettacoli da baraccone, i cui strani protagonisti incontra e fotografa in privato.

E’ solo l’inizio di una indagine volta ad esplorare il variegato, quanto negato, mondo parallelo a quello della riconosciuta “normalità”, che la porterà, appoggiata da amici quali Marvin Israel, Richard Avedon, e in seguito Walker Evans (che riconoscono il valore del suo lavoro, per i più dubbio) a muoversi fra nani, giganti, travestiti, omosessuali, nudisti, ritardati mentali e gemelli, ma anche gente comune colta in atteggiamenti incongrui, con quello sguardo al tempo stesso distaccato e partecipe, che rende le sue immagini uniche.

Nel 1963 riceve una borsa di studio dalla fondazione Guggenheim, ne riceverà una seconda nel ‘66. Riuscirà a pubblicare le sue immagini su riviste come EsquireBazaarNew York TimesNewsweek, e il londinese Sunday Times, spesso sollevando aspre polemiche; le stesse che accompagneranno nel 1965 la mostra al Museum of Modern Art di New York “Acquisizioni recenti”, dove espone alcune sue opere, ritenute troppo forti e perfino offensive, accanto a quelle di Winogrand e Friedlander. Una migliore accoglienza avrà invece, soprattutto presso il mondo della cultura la sua personale “Nuovi Documenti” nel marzo del ‘67 presso lo stesso museo; non mancheranno le critiche dei benpensanti, ma Diane Arbus è già una fotografa riconosciuta ed affermata. A partire dal 1965 insegna in diverse scuole.
I suoi ultimi anni di vita sono all’insegna di una fervente attività, tesa forse anche a combattere con vive emozioni le frequenti crisi depressive, di cui è vittima, l’epatite che aveva contratto in quegli anni e l’uso massiccio di antidepressivi avevano minato inoltre il suo fisico. Si toglie la vita il 26 luglio del 1971, ingerendo una forte dose di barbiturici e incidendosi le vene dei polsi.

L’anno seguente la sua morte il MOMA le dedica un’ampia retrospettiva, ed è inoltre la prima fra i fotografi americani ad essere ospitata dalla Biennale di Venezia, riconoscimenti postumi, questi, che amplificheranno la sua fama, tuttora purtroppo infelicemente collegata all’appellativo di “fotografa dei mostri”.

Rosa Maria Puglisi

(Pubblicato precedentemente su Cultframe)

In Almanac Magazine puoi ascoltare la voce di Arbus in una lezione sulla fotografia, da lei tenuta nel 1970.

9 risposte a "Diane Arbus"

  1. La straordinaria interpretazione della Kidmann nel film fedelmente biografico della Arbus rende assolutamente più interessante, anche per
    coloro che non coltivano interessi fotografici di quella levatura, mi ha davvero impressionato e incuriosito. L’esplorazione del mondo degli esclusi e la loro ” ascesa artistica” dovrebbe avere più spazio anche se la nostra società boccia tale interesse, anzi combatte violentemente l’emergere dialettico intorno a loro.

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    1. In realtà il film, non ha molto a che vedere con la vera biografia dell’artista di cui offre una lettura fantasiosa e romanzata; ha avuto, comunque, l’indubbio pregio di far conoscere Arbus al grande pubblico e attirare l’attenzione di esso su un’opera tanto particolare.
      E’ mia impressione che la nostra società più che bocciare l’interesse verso il cosiddetto mondo degli esclusi, in effetti ha tentato e tenta spesso di rimuovere dalle coscienze della gente qualunque cosa la distogliesse dal finto mondo ideale propagandato a fini consumistici. L’immaginario di un simile mondo purtroppo ne prevede la presenza solo a fini pietistici o spettacolari…

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      1. Guardando il film e non sapendo nulla della Arbus , la prima riflessione nata è stata che la diversità tra le persone è quella dell’anima e non quella fisica. Affermava: ” Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate.” Penso sia una grossa verità, condividendo il fatto che oggi si strumentalizzi troppo spesso il “diverso” ad uso e consumo. Ma forse lei era davvero “attratta” da ciò che era a molti sconosciuto perchè lei stessa aveva lati oscuri…come tutti.

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      2. Come tutti… appunto. Ma l’attrazione non è in tutti sufficiente a spingerli ad andare più nel profondo; si ferma spesso all’esteriorità ed al freak per il freak.
        Non l’attrazione, ma la comprensione (la voglia di comprendere nel profondo) è ciò che ha reso speciale l’opera di questa artista.

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  2. Sono entrata per caso (ammesso che la casualità davvero esista)in questo tuo blog molto interessante, soprattutto per me che amo molto la fotografia ma sono all’inizio del mio percorso e sto cercando d’imparare.
    Concordo con le tue parole qui: la “comprensione” non può non “passare” a chi guarda foto come quelle della Arbus.Solo chi “comprende” può fotografare in un certo modo…personalmente io credo che esista una specie di “messa a fuoco” reciproca tra fotografo e soggetto….
    Ti ho inserito nei contatti su flickr, spero non ti dispiaccia.A presto.

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    1. Come qualcuno ha detto, dire “per caso” è come dire “per Fato”… se ne potrebbe dedurre che la casualità altro non sia che una delle manifestazioni del destino!
      L’idea di una reciproca “messa a fuoco” fra fotografo e soggetto è particolarmente giusta, a mio parere, quando si parla di ritratto, soprattutto perché ad essa è correlata l’idea di “giusta distanza”: esiste una distanza che il fotografo deve capire e mantenere, per quanto possa voler avvicinare il più possibile il suo soggetto da un punto di vista emotivo. Ed è una distanza che si stabilisce nella reciprocità del rapporto… almeno quando si voglia fare un certo tipo d’immagine.
      Naturalmente mi fa piacere che tu m’abbia messo fra i tuoi contatti. A presto 🙂

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  3. Il link della registrazione della Arbus durante le lezioni non si collega ad alcuna pagina, potresti gentilmente postarlo una seconda volta?
    Grazie per ciò che hai scritto

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    1. Ciao. Il link si trovava in questa pagina: http://www.almanacmagazine.com/april/arbus.html. Purtroppo – come leggerai – è stato rimosso su richiesta del Fondo Arbus… E’ un gran peccato era un documento davvero emozionante!
      Se fai una ricerca online, scoprirai che successivamente la registrazione è stata riproposta come audio di una slide-show. Ne parla questo articolo: http://www.newyorker.com/online/blogs/books/2011/09/arbus-speaks-1.html

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