Come alcuni di voi già sapranno, da un articolo pubblicato in questi giorni sulle pagine di “Cultframe” è nata  la proposta di tentare un pubblico dialogo che abbia come oggetto “la fotografia italiana”, dal momento che questa attualmente si trova ad essere un mondo – cito testualmente – “particolarmente chiuso e conservatore nonché estremamente timoroso (e quindi non avvezzo al confronto di idee); è un mondo che si nutre di luoghi comuni, fraintendimenti, provincialismo e di quello che io chiamo, senza mezzi termini, regime”.

Il perché lo sia, Maurizio De Bonis lo argomenta in maniera molto chiara e circostanziata nel suo scritto al quale sono di spunto le parole che Sandro Iovine ha pronunciato qualche mese fa nel corso di un’intervista in tre parti, curata e messa on line da “Idee in Bianco e Nero“.

Per questo motivo De Bonis si è rivolto proprio a Iovine nel tentativo di avviare un dialogo sulla fotografia, trovando il giusto sostegno nel blog di questi al suo intento di smuovere le acque e allargare il dibattito. Dibattito che – di fatto – ha cominciato a prender corpo sul blog di Iovine, un vero luogo eletto per tali discussioni, a partire dal suo nome: “Fotografia: parliamone!”. Lo trovate cliccando qui.

Per quanto concerne l’andamento attuale di questo dibattito, vorrei rilevare, innanzi tutto, una generale accoglienza positiva verso tale proposta di dialogo, oltre che la pressoché totale adesione agli assunti che De Bonis propone quali premesse: prima fra tutte l’insofferenza verso un cosiddetto “regime”, gestito da (cito ancora l’articolo) mondo del giornalismo e della comunicazione, taluni organizzatori di corsi e workshop, alcune riviste di fotografia, agenzie, circuito amatoriale, nonché accademie e università”, di modo che “ognuna di queste realtà, nel suo settore di competenza, contribuisce a creare un clima di chiusura spaventoso, un labirinto che nega sistematicamente la libertà espressiva e che forma (si fa per dire) generazioni di fotografi che non riescono a vedere oltre la punta del loro naso”.

Fra coloro che sono intervenuti, i più sono desiderosi di cambiamenti, alcuni addirittura di riscossa. Per fortuna, sono pochi coloro che paiono arrendersi ai fatalismi del “niente può cambiare: inutile anche provarci”!

Le proposte, però, quelle concrete intendo, invece, pare sia un po’ arduo formularle. L’unica parrebbe quella di creare un luogo virtuale, dove si possa da una parte mantenere aperto e sempre vivo il dialogo, dall’altra depositare i contributi di chi voglia “fornire indicazioni utili e approfondimenti a chiunque desideri studiare il fotografico e le sue innumerevoli relazioni con la realtà”.

De Bonis stesso è poi intervenuto in sede di dibattito per tentare di mettere a fuoco alcuni (ben 20!) punti sui quali si potrebbe opportunamente dibattere, che propongono in realtà altrettante problematicità nelle quali fatalmente ci si può imbattere occupandosi o semplicemente interessandosi di fotografia.

Un tale elenco, proposto più che altro per alimentare un dibattito, ha l’aria però di richiedere risposte troppo concrete in una fase che sembra ancora quella di un generico approccio all’altrettanto generica questione fotografia. E le parole con le quali De Bonis lo glossa paiono accendere uno spot su di un baratro nel quale la fotografia è sprofondata, a causa delle solite baronie che in Italia stritolano e soffocano ogni campo, e getta una luce veramente sinistra che forse rischia di sostenere i molti scettici adusi a cullarsi nel “non c’è più niente da fare”.

Da parte mia, al di là delle considerazioni che potrei fare su ciascuno dei 20 punti (ognuno dei quali richiederebbe ampie risposte) ribadisco qui – come ho già fatto là – il principio che tutto debba partire da una diffusa (il più possibile!) educazione all’immagine, la quale tenga conto degli elementi costitutivi del linguaggio visivo, del suo abc.

Trovandomi a commentare sul blog di Iovine per esprimere questa mia idea ho usato una frase che si è rivelata infelice: “alfabetizzazione delle masse riguardo alla fotografia”. Frase infelice perché ampiamente fraintesa a causa dei concetti che sono stati “appiccicati” nel corso degli anni alle parole “alfabetizzazione” e “masse”, le quali di per sé non hanno affatto per loro natura le valenze che ormai gli si attribuiscono.

Tra parentesi, a tal proposito, mi permetto di notare, che anche un termine tanto caro a De Bonis (quello di “regime”) con tutte le sue tragiche ulteriori valenze politiche ed emotive si presta al fraintendimento di chi potrebbe voler trasformare questo dibattito, colorandolo di tinte politiche che di per sé non dovrebbe avere.

Questo episodio ha rafforzato la mia opinione che si debba partire da un’analisi la quale coinvolga tutti i fondamenti della comunicazione visiva, che oggi si danno erroneamente per scontati, proprio come per scontato si dà il significato strumentale di una parola perdendone sovente la sua più autentica accezione semantica.

Così, come nel linguaggio verbale, anche in quello visivo e più in paticolare fotografico è diventato sempre più necessario ridefinire chiaramente certi termini.

Di questo non credo si possa fare a meno se vogliamo davvero creare la possibilità non di un’unica, ma del più ampio spettro possibile di valide alternative all’attuale monolitico ( e granitico!) mondo della fotografia italiana.

La vera libertà, che ci auspichiamo non nasce forse dalla possibilità di essere consapevoli delle proprie azioni e responsabili per esse?

Non vorremmo  – spero – combattere l’attuale “regime” per sostituirlo con una “democrazia”, dove (come nella orwelliana “fattoria degli animali”) tutti sono uguali, ma alcuni (magari proprio noi!) sono “più uguali degli altri”!